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Alì Lmrabet e Fatima Mahfud: momento storico a “Imbavagliati”. Per la prima allo stesso tavolo il giornalista marocchino e la rappresentante del Fronte Polisario in Italia

Il 24 agosto 2015 al Museo Pan ha aperto i lavori Alì Lmrabet (nella foto di Stefano Renna) insieme al giudice Nicola Quatrano, al fotografo Patrizio Esposito e Fatima Mahfud, rappresentante in Italia del Fronte Polisario. Segnalato da «Reporters sans frontières» come uno dei “100 eroi dell’informazione”, il sessantunenne giornalista marocchino ha scontato diversi anni di carcere nel suo paese per la pubblicazione di alcuni articoli, contestati dal “regime”. In particolare la condanna è scaturita dall’aver denunciato nel 2005 sul quotidiano spagnolo «El Mundo» che i Sahrawi che vivono nei campi alla periferia della città algerina di Tindouf erano rifugiati e non ostaggi detenuti contro la loro volontà, come il governo marocchino sosteneva. Il 24 giugno 2015 Alì ha iniziato uno sciopero della fame, conclusosi pochi giorni prima dell’inizio dell’evento, davanti alla sede del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, con lo scopo di rivendicare il suo diritto a pubblicare nel suo paese un settimanale satirico in arabo. Le autorità di Tetuan, sua città natale, si rifiutavano, infatti, di concedergli il permesso di soggiorno ed i suoi settimanali satirici, Demain Magazine e Douman, sono stati vietati dal 2003. Con la sua battaglia Alì Lmrabet è riuscito a reclamare i propri diritti, grazie anche a centinaia di intellettuali, molti dei quali di fama internazionale, che hanno indirizzato una lettera al re del Marocco, Mohamed VI per esprimere il proprio sostegno al giornalista marocchino. “Imbavagliati” si è proposto come la voce di queste terre e di questi giornalisti. E anche molto di più.

Una vita alle prese con bavagli, divieti, minacce: quella di Alì Lmrabe.

Ora che le hanno restituito l’identità, metterà in cantiere il suo nuovo magazine?

Non ho ancora riavuto i documenti. Aspetto dal 7 agosto. Il ministro dell’Interno, Mohamed Hassad, aveva dichiarato all’agenzia di stampa governativa marocchina Map che avrei avuto il passaporto in tre giorni. Tre giorni… elastici. Quando queste meschine vessazioni amministrative finiranno, farò un settimanale satirico che parlerà di tutto, anche dei temi urticanti per il Marocco, come il conflitto del Sahara occidentale, la monarchia o la religione musulmana. Il nostro ruolo è criticare e denunciare i difetti degli uomini di Stato con la satira, senza cadere nell’offesa o nell’apologia di reato: le sole regole da rispettare.

Come si vive in un paese senza libertà di stampa?

Male, ma ci si abitua. È il regime marocchino che non riesce ad abituarsi a noi. Ci siamo assuefatti al mobbing, a continui processi e denunce, a divieti di ogni specie, a campagne diffamatorie e accuse. Certamente si soffre, ma non si cede mai sul punto fondamentale, sulla conoscenza del livello della nostra libertà, la libertà tout court. Noi non siamo vittime, perché abbiamo scelto liberamente la nostra via crucis.

Ha pensato mai di lasciare definitivamente il Marocco?

Appartengo alla prima generazione di metropolitani, figli di montanari. Ho studiato da straniero in Francia, ma mi sento marocchino. Si può anzi dire che faccio parte del “paesaggio”. I miei antenati berberi l’hanno fatta pagare cara agli invasori, dagli arabi agli spagnoli: sarebbe disonorevole tradirli.

Che cosa pensa del giornalismo dei paesi democratici?

C’è di tutto. Cose buone e cose pessime. Prima avevo molti riferimenti occidentali. Oggi purtroppo non ne ho più. Dopo gli attentati dell’11 settembre molti giornali per me rispettabili si sono allineati con la politica Usa sulla guerra in Iraq, e allora ho cercato altri riferimenti. E poiché non ne ho trovati, me li son fatti da me.

Kapuscinski diceva che il terrorismo nasce dalle differenze sociali e si poneva il problema di combattere il terrorismo rispettando la democrazia. Lei che ne pensa?

Assolutamente d’accordo. Aggiungerei che le repubbliche occidentali, che contrappongono democrazia a terrorismo, permettono a regimi come Marocco, Egitto e Arabia Saudita di perseguitare i loro dissidenti, anche se tra loro ci sono sostenitori della democrazia. Cinque milioni di persone in piazza a Parigi per Charlie Hebdo: ma quanti lo farebbero se la libertà d’espressione fosse sbeffeggiata al Cairo o a Ryad? Pochissimi. Prendete me: secondo una Ong marocchina il 74% dei jihadisti del Marocco andati in Siria e Iraq vengono dalla mia stessa zona. Hanno tutti il passaporto. Io, che non sono né musulmano né della Jihad, vengo privato di questo diritto fondamentale.

 

 

 

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